Intervista a Cleto Munari | Editore di oggetti unici e senza tempo
La sua traiettoria artistica è sempre stata poliedrica, portandola ad interpretare contemporaneamente diversi ruoli. Designer, imprenditore, editore, gioielliere, artista: come le piace definirsi?
Al momento, come una sorta di editore. Un mio caro amico, Neri Pozza, editore per Mondadori, era solito dirmi: io sono un editore di libri, tu sei un editore di oggetti importanti. Ora è così che mi piace definirmi, un editore sempre in cerca del suo prossimo bestseller.
Il suo esordio nel mondo del design è arrivato relativamente tardi, a quarant’anni. Cosa l’ha spinta a intraprendere questo percorso? Com’è stato inoltrarsi nella scoperta del mondo del design?
La mia attività nel mondo del design ha avuto inizio verso i 45 anni, in un momento della mia vita relativamente avanzato, certo, ma che considero anche oggi perfetto data la vasta gamma di interessi che avevo coltivato fino a quel momento. Cavalli, tennis, biliardo, carte, donne; in 25 anni non mi ero fatto mancare nulla. A quel punto cominciai ad avvertire il desiderio di accasarmi e dedicarmi a qualcosa di nuovo, così pensai di rivolgermi al mondo del design. Da tempo infatti ero appassionato del settore, soprattutto la grafica, così pensai fosse una buona idea continuare in quella direzione. Riflettendoci a posteriori, posso dire di essere stato allora guidato da passione, intraprendenza e indubbiamente, un pizzico di fortuna.
Ricorda un particolare evento che secondo lei ha segnato la sua strada nel mondo del design?
Nel 1970, l’epoca in cui la fiera di Milano, l’allora Fiera Campionaria, esponeva non solo mobili, ma tutto ciò che avesse attinenza al mondo produttivo italiano, mi ritrovai a partecipare e vincere il primo premio come designer emergente per una piccola caraffa che avevo disegnato per conto di una azienda. Il successo di quel mio tentativo non solo mi stupì molto, ma convinse che in qualche modo avrei potuto intraprendere quel percorso. Già allora avevo avuto modo di conoscere alcuni grandi designer dell’epoca come Gio Ponti, Marco Zanuso e Mario Bellini, ma l’incontro più importante fu di certo quello con Ettore Sottsass di cui divenni grande amico.
Infine nel 1973 si trasferì a Vicenza Carlo Scarpa. Caso volle che Ettore Sottsass fosse suo grande amico, così in breve le nostre conoscenze comuni ci portarono a conoscerci e diventare amici. Senza dubbio fu Carlo Scarpa a segnare un punto di svolta nella mia vita, cambiandomi per sempre e orientando da allora ogni mio passo futuro. Se non fosse stato per lui non so cosa farei ora, il barbone probabilmente *ride*. Lui ed Ettore Sottsass mi hanno cambiato la vita.
L’incontro con Carlo Scarpa ha segnato il suo destino, sia personale che professionale. Ci parli un po’ del vostro rapporto. Quanto pensa l’abbia cambiato conoscere un genio come lui?
Carlo Scarpa era, per dirlo in dialetto veneto, “un ostia”; una persona particolare e introversa, consapevole e cosciente delle proprie capacità. Sapeva di essere considerato uno dei più grandi architetti del tempo non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Frank Lloyd Wright lo ammirava molto e veniva da Scarpa totalmente ricambiato, tant’è che spesso si può notare una grande influenza wrightiana nella sua architettura.
Essendo un uomo naturalmente introverso e diffidente, non fu facile avvicinarlo. La prima volta che lo incontrai mi salutò appena e con freddezza. Fortuna volle però che riuscii a entrare nelle grazie della moglie, la quale mi invitò a casa loro per cena. Dal quella sera del ‘63 fino al ‘78 mi ritrovai a far loro visita tutti i giorni, quando c’era il professore, dalle 9 della mattina fino alle 11 di sera. In quelle occasioni si parlava d’arte, design e architettura contemporanea. Se potevo, lo accompagnavo ovunque andasse. I suoi programmi fondamentali erano le cene e le colazioni. Amava moltissimo i vini preziosi, lo champagne e il caviale e le fragoline di bosco.
Cosa ci racconta di Ettore Sottsass. Che tipo di persona era e che rapporto avevate?
Divenni amico di Sottsass prima ancora che con Carlo Scarpa. In quegli anni Ettore veniva spesso a casa mia, ogni 15 giorni circa, perché amava e preferiva l’ospitalità delle persone piuttosto che quella degli alberghi. Con lui e Carlo Scarpa organizzavamo dei bellissimi weekend in compagnia anche di Vittorio Gregotti, Roberto Sambonet e altri ancora. Ogni volta erano colazioni e cene luculliane. A mio parere, Sottsass ha saputo anticipare di 30 anni il mondo del design, creando negli anni ‘60 opere poi apprezzate più tardi, negli anni ‘90.
Nel laboratorio da lei creato si sono nel tempo intervallati designer di fama internazionale. Come è stato vivere in quell’ambiente colmo di talenti?
Grazie a Carlo Scarpa ebbi modo di inoltrarmi col tempo sempre più nel mondo del design, viaggiando fra Danimarca, Svezia, Finlandia e oltre per conoscere i più grandi maestri dell’arredamento scandinavo degli anni ’50. Fu in questo periodo che conobbi Timo Sarpaneva, Alvar Aalto, Tapio Wirkkala e altri ancora.
Viaggiavo per conoscerli, non per altro, e scoprire ciò che li rendeva grandi. Da parte mia avevo non solo la passione, ma il lasciapassare di Carlo Scarpa la cui notorietà e ammirazione internazionale mi fornivano ovunque andassi una sorta di passepartout.
Conoscere quelle persone è stato per me una grande fonte di ispirazione, nonché un modo privilegiato di capire sempre più il mondo del design e farlo mio. Attraverso i loro occhi riuscivo a capire ciò che a molti altri era negato, la chiave della loro arte.
Oltre ai nomi già citati, lei nella vita ha avuto occasione di lavorare con tanti grandissimi mostri sacri della cultura del Novecento, negli ambiti più disparati: architettura e design, chiaramente, ma anche arte, letteratura, moda… Ci può raccontare qualche incontro che le è rimasto particolarmente nel cuore?
In vita ho spaziato da una parte all’altra del mondo, viaggiando per immergermi nelle mie molteplici passioni inerenti non solo il design, ma anche Arte, Architettura, Musica e altro ancora. Ogni volta incontravo personaggi incredibili. Ricordo che nell’86, durante la mostra organizzata per me da Hans Hollein nella Österreichische Galerie Belvedere di Vienna, ebbi la fortuna di incontrare il principe Schwarzenberg. Lui mi presentò il poeta Václav Havel, all’epoca dissidente del regime comunista, con cui passammo la giornata. Mi disse allora che se mai un giorno fosse tornato a Praga, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stato organizzare una mostra dedicata a me. Quando nel ’92 Havel tornò effettivamente in Repubblica Ceca, dove venne eletto presidente, si dimostrò un uomo di parola. Mi invitò ad allestire una mostra nientemeno che nel castello di Praga.
Un’altra personalità particolare fu Nagib Mahfuz, nobel per la letteratura. Volle conoscermi dopo che gli dedicai una delle mie penne. Io e mia moglie volammo fino in Egitto per poter passare del tempo insieme.
Nei moltissimi campi in cui lei si è distinto, il design di oggetti è sicuramente uno dei più notevoli. I suoi pezzi sono esposti nei musei di tutto il mondo. C’è un progetto nel particolare che pensa l’abbia segnato più di altri? E uno che abbia determinato la sua carriera di designer?
Mi piace pensare che il mio percorso come designer sia cominciato un po’ alla maniera dei “serventini”. A Venezia abbiamo delle scuole del vetro dove giovani ragazzi chiamati appunto “serventini” apprendono il mestiere osservando i maestri e aiutandoli nel loro lavoro di creazione. Ecco, io penso di essere proprio quello. Sono stato il serventino di molti maestri, alcuni più di altri dai quali ho pian piano imparato il mestiere. Ora che sono diventato a mia volta un mastro vetraio, posso soffiare cose abbastanza belle, portando avanti la mia bottega di oggetti importanti; facendo poesia, come si suol dire. La presenza dei nostri oggetti in oltre 100 musei del mondo credo sia una testimonianza abbastanza valida del fatto che ciò che facciamo non sia poi così male.
Fra i progetti che mi sono più cari, potrei citare le penne che ho dedicato ad alcuni premi Nobel per la letteratura. L’idea di disegnare penne speciali da dedicare a personaggi altrettanto degni di nota nacque con Saul Bellow, scrittore americano e premio Nobel del 1976. Pensai che riuscendo a conquistare lui, avrei avuto vita facile con tutti gli altri. Effettivamente andò così. Quando facevo visita agli altri Premi Nobel dicendo che avevo dedicato una penna a Saul Bellow, ottenevo sempre un parere positivo. Per la creazione di questi oggetti unici mi rivolsi a grandi designer del calibro di Toyo Ito, Alessandro Mendini, Álvaro Siza Vieira e Oscar Tusquets Blanca. Ne derivarono cinque prodotti unici nel loro genere destinati ad altrettanto illustri personaggi come Wole Soyinka, José Saramago, Saul Bellow, Nagib Mahfuz, e Toni Morrison. Saramago in particolare fu il più difficile in assoluto da conquistare. Inizialmente schivo e sulle sue, riuscii a “corromperlo” e conquistarlo solo a prezzo di grandissimi sforzi.
Una sua grande intuizione è stata quella di portare i grandi architetti e designer a lavorare in un mondo apparentemente lontano dalla loro specializzazione, quello del gioiello, realizzando collezioni ospitate oggi nei più importanti musei del mondo. Come è nata questa idea?
L’idea di dedicarmi alla creazione di gioielli nacque all’incirca nell’82 con i primi due-tre pezzi creati per mia moglie. In seguito incontrai Michele De Lucchi, che stimo e credo sia il più grande architetto italiano in quanto a sensibilità e qualità delle sue opere, con cui riuscii a ideare altri quattro-cinque pezzi. Da quei primi modelli, grazie a Ettore Sottsass e un gruppo di architetti americani fra cui Richard Meier e Michael Graves, cominciò a concretizzarsi l’idea di avviare una vera e propria attività. Oggi la produzione di gioielli riveste un’importanza cruciale nella nostra azienda insieme a tappeti, mobili, penne e altri oggetti di valore.
Ci parli invece delle posate.
L’idea delle posate nacque dopo essermi rovesciato sui pantaloni una forchettata di piselli. *ride* A quel tempo le famiglie bene utilizzavano le forchette San Marco, che nel ‘700, alla loro creazione, funzionavano anche bene, ma essendo poi state rimaneggiate nel corso del tempo, ora presentavano non pochi difetti. Per dirne uno, la presenza di tre soli dentini. Proposi a Carlo Scarpa di ideare una forchetta più performante. All’epoca, eravamo nel ’73, lui mi ignorò, ma tornammo a parlarne nel ’77 quando, come mi disse, i tempi erano maturi.
Non era raro per Carlo Scarpa fare questo tipo di ragionamenti dato che, come spesso lui diceva, per fare alcune cose era necessario avere delle idee, e non viceversa. Non era una persona cui si potesse dire “fammi questa cosa” e lui la faceva. Era l’idea a guidarlo nei progetti. Nel ’77 prese quindi vita un nuovo set di posate, un mix incredibile di artigianalità e design oggi ospitate in moltissimi musei del mondo.
Qual è per lei il ruolo dell’artigiano nel processo creativo?
Artigianalità e idee credo siano una parte fondamentale e affatto prescindibile del mondo del design. Se non ci sono idee, non si fa design. Oggi però le cose sono molto diverse: internet ci dà la possibilità di creare qualsiasi cosa in pochissimo tempo, dando vita a tutto in meno di niente.
Lei ha vissuto da protagonista diverse epoche del mondo del design, con tutti i loro cambiamenti. Qual è la sua opinione sulle estetiche e le tendenze oggi dominanti? C’è qualche giovane designer che apprezza particolarmente?
A mio dire questo è un momento un po’ triste nella storia del design. Ogni cosa può essere fatta subito e con poco sforzo grazie a software e aziende specializzati nel dar vita in poco tempo a qualunque tipo di progetto. Una gran innovazione, certo, che spesso però ha come effetto collaterale il non riuscire mai a produrre risultati realmente nuovi o, per meglio dire, “innovativi” in senso stretto.
Oggigiorno di quello che faceva Scarpa, Wright e Hoffman non c’è molto, se non nulla. E non è un caso. Non è infatti possibile creare quando il vero moto d’ispirazione non è l’idea, bensì il tempo, il guadagno e la fretta. Per me il pensiero deve procedere più lentamente, accompagnato – ove possibile – anche da un buon bicchiere di vino e riposare prima di vedere la luce. È soltanto così che vengono fuori le idee importanti. Diversamente si rischia di dar vita a qualcosa che sembra nuovo, ma appunto, non lo è per davvero. Se guardo oggi una rivista per divani, è impossibile non notare quanto tutti i modelli sembrino uguali, diversi soltanto per qualche particolare e la firma in calce. In sostanza, si denota un appiattimento della scelta.
A proposito di artigianalità: qual è il rapporto con la sua Vicenza? Lei è una figura cosmopolita e dagli ampi orizzonti e contemporaneamente con un saldo ancoraggio alla realtà locale, come riesce a coniugare tutto questo?
In realtà sono vicentino d’adozione. La mia vera patria è il Friuli, e a Vicenza ho trascorso l’infanzia perché era lì che abitavano i miei nonni materni. Amo molto questa città, sebbene tanti potrebbero definirla un po’ troppo tranquilla. Mia moglie, che è napoletana, non si è mai trovata davvero bene qui, ma per me rappresenta da sempre un legame non solo con la famiglia, ma anche con le mie passioni. Qui c’è l’artigianato con ferro e legno, e sempre vicino, la Venezia del vetro.
Viaggiando molto ho avuto modo di conoscere tante altre realtà con cui ho stabilito legami particolari, Roma e Napoli per esempio. Il ritmo e il calore di quelle terre associano alla passione per il lavoro anche la possibilità di creare rapporti più intimi, fatti di cordialità e amicizie. Milano ha invece un altro sapore: più caotica e affannata, la cosiddetta “Milano da bere”, rende difficile uscire un po’ dal seminato, seguendo schemi più liberi.
Ha qualche progetto futuro per lei e la sua attività?
Al momento, conto di vivere fino a 120 anni *ride*.
Anche ora che non sono più un ragazzino mi sto dedicando a progetti e idee per il futuro dell’azienda. Affiancato dai miei collaboratori e soprattutto da mio nipote Alessandro mi sto dedicando a novità inerenti tappeti, gioielli e altri oggetti importanti che da sempre hanno fatto la nostra fortuna. In poche parole, mi diverto.
Al momento la tabella di marcia è fissata su piani quinquennali, come altri prima di me solevano fare. Ci rivedremo quindi nel 2025 che spero sarà ricco di novità e grandi idee.
Courtesy of Maggiore Design – Galleria d’Arte Maggiore g.a.m., Bologna/Milano/Paris
Photo: Michele Sereni, Pesaro
Video: Archivio storico Istituto Luce, Cinegiornale “Radar”, presentazione del set di posate Scarpa-Munari, Venezia 1978