Intervista a Gabriele Chiave | Designer e Art Director
Parlaci un po’ di te. Leggendoti si scopre che la passione per il mondo dell’arredo è, per così dire, di famiglia. Fra grandi viaggi e influenze multiculturali, quanto pensi abbia influito il passato su ciò che sei ora?
Premetto che non sono nato con il desiderio di diventare designer. Figlio di diplomatici, ho passato la mia infanzia viaggiando in tutto il mondo, dalla Francia al Senegal, poi Argentina, Italia e così via fino a oggi, l’Olanda. L’amore per il design è nato però crescendo in una famiglia appassionata di oggetti e mobili antichi, fra antiquariato e modernariato. Pur spostandoci, portavamo sempre con noi la nostra collezione di antichità, più ricca a ogni nuova tappa. Come molti sanno, è proprietà intrinseca di ogni oggetto raccontare qualcosa, così in quell’ambiente anche io cominciai a capire il linguaggio di quel mondo fatto di materiali e artigianalità. Viaggiando, per me “casa” non erano muri e strutture, ma proprio quei ricordi che portavamo dietro perché erano loro che ci seguivano nei diversi continenti.
Come è poi cominciato il tuo percorso nel mondo del design? Cosa pensi ti abbia spinto a intraprendere questa carriera?
Da questa collezione familiare nacque la mia grande passione per il restauro e l’archeologia, entrambi necessari per rivelare quanto celato in ogni pezzo. All’età di 17 anni ebbi la possibilità di prender parte a una spedizione di 15 persone organizzata dal professor Falsone per conto dell’Università dell’Archeologia di Palermo nella zona dell’Eufrate. Da diversi anni si concentrano lì alcuni scavi per portare alla luce i resti di civiltà risalenti al 2.000 – 3.000 A.C.
Attorno a quel buco di 4×4 metri situato in mezzo al deserto si concentrava un piccolo villaggio di locali dove diversi team di studio si intervallavano per tutto l’anno portando alla luce reperti. Fu ovviamente un’esperienza incredibile: divenni subito la mascotte del gruppo e il professore mi permise di sperimentare dalla A alla Z tutte le fasi del restauro. Fu allora che mi ritrovai a pensare a quanto fosse bello trovare degli oggetti capaci di raccontare la storia del passato. Da lì l’idea di continuare quella trasmissione, rendermi cioè partecipe in prima persona di quel processo di creazione non solo passato, ma anche futuro, facendo design e progettando per così dire la prossima archeologia, o anche, l’archeologia del domani.
Cominciai a studiare a Milano presso l’Istituto Europeo di Design dando poi vita a numerosi progetti con Alessi, gestendo alcuni workshop per architetti e designer. Proseguii quindi lavorando con alcuni studi a Milano fino a quando 14 anni fa un olandese mi chiamò per “far loro visita” ad Amsterdam. Era il 2007 e all’epoca non pensavo di rimanere a lungo nello studio di Marcel Wanders. Ora però sono passati 14 anni e credo di poter dire a tutti gli effetti che questa sia diventata la mia nuova casa.
Come è stato reinventarsi da un posto all’altro, ricominciare da zero dopo gli studi e lavori in Italia?
Crescendo all’estero e spostandomi di continuo, la mia infanzia è stata molto dura. All’epoca non c’era niente, né Facebook né i vari social, per cui cambiare città era un po’ come ripartire da zero. Passando però attraverso quelle fasi, cominci anche a sviluppare una grande adattabilità alle sfide e alla vita. Personalmente credo che vivere in culture così diverse fra loro mi abbia arricchito molto, dandomi modo di capire che il mondo non è un territorio ma un vero e proprio universo culturale, ricchissimo in ogni sua sfaccettatura.
In quanto designer, avendo studiato a Milano con il bagaglio dei maestri e una prospettiva del design fatta di industria e funzionalismo, giunto in Olanda mi ritrovai a scontrarmi con il paradigma vigente, molto più vicino al mondo dell’arte e alla creatività artigianale. Ne derivò per me un’apertura incredibile verso nuove prospettive e orizzonti più vicini alla poetica, alla sperimentazione e alla diversità.
Veniamo all’esperienza presso lo studio di Marcel Wanders. Come è stato ritrovarsi in un ambiente del genere? Qual è stata la prima impressione?
Lavorando con Wanders ho avuto modo di apprezzare il suo essere “terra-terra”, nonché il suo personale modo di fare team creando attorno a sé una vera e propria famiglia dove si parla, si discute, ci si confronta e insieme si giunge alla soluzione di ogni problema. Con lui mi sono dedicato fin dal primo anno al Product Design, diventando responsabile di quella sezione. Dopo cinque anni mi venne però offerto l’incarico di Direttore Creativo di tutto lo studio, un passo decisamente importante dato che fino ad allora non avevo mai trattato Interior Design. Lavorare con Marcel Wanders è un po’ come parlare più lingue, dove ogni progetto acquista forma e dimensioni sotto diversi punti di vista fino a trasformarsi in una vera e propria realtà tridimensionale.
Nell’approccio all’Interior Design quale pensi sia stata la difficoltà più grande?
Credo che la visione meta-progettuale fra Product e Interior design sia bene o male la stessa. Per fare design di prodotto ci si deve però comportare un po’ come dei violinisti: conoscere al dettaglio il proprio strumento, riuscendo a decifrarne e descriverne al dettaglio ogni sfaccettatura. Un Interior Designer si comporta invece più come un direttore d’orchestra: più che il singolo strumento è importante che abbia una visione d’insieme capace di coniugare ogni figura singola con tutte le altre in un tutt’uno armonico. Non si può pretendere di conoscere il dettaglio di tutto. Quando immagino un prodotto sono propenso a definirlo in ogni sua parte; ma nell’Interior ciò che conta di più è la visione d’insieme.
Un altro aspetto che differenzia queste due dimensioni è l’idea. Nel Product ce ne vuole una, forte, capace di definirlo e contraddistinguere il singolo pezzo. Nell’Interior invece ce ne devono essere mille. Il prodotto ha una vita sola, l’Interior ha mille nuance. E’ come una melodia. Il prodotto è una cipolla, l’Interior la ricetta intera.
Puoi dirci qualcosa sul presente? Come è stato affrontare quest’anno di cambiamenti e cosa pensi ne deriverà in futuro? Hai progetti che stai portando avanti e di cui ti piacerebbe parlarci?
Al momento l’attività dello studio procede bene, malgrado il periodo un po’ controverso. Complici le nuove esigenze nate da questo momento storico, stiamo soprattutto studiando un nuovo modo di progettare gli spazi comuni di residenze e alberghi, rivedendone le possibilità aggregative. Quando si visita una città, spesso l’esigenza di comprenderne l’essenza e il vero volto culturale non passa soltanto dalle strutture, ma soprattutto attraverso le persone. Lo studio Wanders vuole inserirsi proprio lì, reinventando il concetto di Hub dove sia possibile avere uno scambio diretto e creare dei punti di congiunzione non solo fra viaggiatori e stranieri, ma anche con la comunità locale. In questo periodo, più che in ogni altro, credo sia possibile comprendere questa esigenza di avvicinare i confini, annullando le barriere per dar vita a uno scambio diretto e privo di ostacoli.